Carlo Pontevolpe continua a muoversi in quel territorio fragile e luminoso dove le emozioni non vengono addomesticate, ma osservate da vicino, quasi al microscopio. “Nessuna Via di Mezzo” è il suo nuovo passo in questa direzione: un brano che parla di crisi senza compiangerle, di verità interiori che fanno male ma che, una volta dette, liberano. Lo abbiamo raggiunto per questa intervista, un dialogo che non cerca scorciatoie, proprio come le sue canzoni.
In “Nessuna Via di Mezzo” racconti una crisi con lucidità quasi chirurgica. Ti consideri più un osservatore delle tue emozioni o un loro sopravvissuto?
Ciao e grazie per questo spazio! Sono sia un osservatore che un sopravvissuto. Un osservatore perché passo gran parte del mio tempo a lavorare sulla mia crescita personale attraverso la lettura dei miei comportamenti ma anche delle emozioni che li guidano. E sono un sopravvissuto perché non è sempre facile uscire vincitore da questa “immersione” dentro se stessi.
Il brano alterna momenti sospesi e altri travolgenti. È così anche il tuo modo di amare ? o di scrivere?
Più che altro il mio modo di vivere. Come tutte le persone che abbiano ancora un briciolo di umanità, non sono sempre uguale, alterno giorni di carica ed entusiasmo, a giornate più riflessive, a volte paranoiche. Penso sia la bellezza dell’essere umani, specialmente in un’epoca in cui ci stiamo affidando sempre più e forse troppo alle macchine.
Le tue canzoni sembrano fotografie di stati d’animo precisi, mai costruite. Ti capita di scrivere anche quando non stai male, o il dolore resta il tuo motore creativo?
Intanto grazie perché potrei prenderlo come un complimento. Il motore non è sempre il dolore, ma direi più che altro le emozioni in generale. Non potrei mai fare una canzone costruita, ma non perché non sia in grado, piuttosto perché mancherebbe lo scopo principale che è quello di usare la musica come strumento terapeutico, di introspezione, di contatto con il mio universo interiore ancor prima che di espressione verso l’esterno.
Nel panorama pop italiano spesso si tende a “pulire” le emozioni per renderle radiofoniche. Tu invece lasci entrare le imperfezioni. È una scelta estetica o un atto di resistenza?
È il mio modo naturale di fare musica, collegandomi alla risposta precedente. Ma in un certo senso, rappresenta anche un atto di resistenza in un panorama musicale sempre più di plastica, dove persino l’autenticità sembra costruita. Non ho nulla contro chi scrive solo per evasione, o per fare ascolti, ma non è il mio modus operandi. Se scrivo è perché ne sento la necessità interiore, e mettere dei filtri, “slavare” il tutto, mi farebbe sentire come se stessi in qualche modo mentendo a me stesso prima ancora che al pubblico.
Nei tuoi testi c’è sempre un equilibrio tra intimità e universalità. Quando scrivi, pensi a chi ascolterà o solo a ciò che hai bisogno di dire?
Non pensare del tutto al pubblico non sarebbe corretto, credo. La canzone è una forma di comunicazione e come tale deve tener conto dell’interlocutore. La mia ambizione di rendere universale ciò che sento è dettata dal fatto che spero sempre di creare una connessione con chi ascolta, anche per esempio nei live, ed essere autoreferenziali non sarebbe di appeal credo. Quantomeno io non amo molto le persone autoreferenziali (sorride, ndr).
Se dovessi riassumere il tuo percorso finora con una frase che non sia un titolo, quale sarebbe?
Cito il mio maestro spirituale, Lama Michel: “pensando di fare sono passati vent’anni, non sono riuscito e sono passati altri vent’anni, perché non l’ho fatto e sono passati altri vent’anni; ecco la biografia di una vita vuota”. Io personalmente mi sono fermato alla seconda frase, ai quarant’anni, e sono contento di non aver portato avanti il rimpianto di lasciare queste canzoni chiuse nel cassetto perché quello mi stava letteralmente logorando. Dovevo fare “outing”, per dire a me stesso che ciò che sento, che sono, non è nulla di cui vergognarmi, anzi.